ROBERTO OSCULATI

Ordinario di Storia del Cristianesimo
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Catania
(1987 - 2012)
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Roberto Osculati, L’Apocalisse, IPL, Milano 2008, pp.193

in Orpheus, n.s. 29-30 (2008-2009), pp. 224-230

Roberto O(sculati), dopo i tanto apprezzati studi sui quattro Evangeli e su altri testi del Nuovo Testamento, affronta con quest’ultima opera la prova forse più impegnativa per il carattere stesso della pièce, con le sue elucubrazioni e i suoi significati non sempre di facile interpretazione.
Ma per l’O. le Scritture non hanno misteri: e non solo quelle neotestamentarie, alle quali si è rivolta la sua attenzione, ma anche quelle veterotestamentarie, la cui conoscenza è indispensabile per una corretta ed esauriente interpretazione dei testi specifici della nuova religione.

Il vol., come di consueto, si apre con una congrua e limpida introduzione, a cui segue il testo e la sua interpretazione, con opportuna, ampia partizione; e in questo egregio lavoro troviamo difficile stabilire se sia più apprezzabile la sintesi, pregnante nella sua stringatezza, o l’analisi, sottile, ma mai debordante, che riposa su un sicuro, agguerrito retroterra di scienza neo e veterotestamentaria.
Nell’«Introduzione» (pp. 5-8) l’O. osserva come l’opera giovannea si soffermi sul carattere negativo e distruttivo della storia, ma nello stesso tempo com’essa offra le prospettive di una umanità liberata dal peccato e dalla morte: infatti «ogni essere umano è coinvolto nei suoi inganni ma insieme è chiamato a uscirne» (p. 5).
La stesura dell’opera è generalmente fissata verso la fine del I sec.; essa si pone sullo sfondo dell’impero di Roma, nella cui azione corruttrice i cristiani vedevano rinnovarsi l’era nefasta dell’oppressione babilonese, e ad essa si oppone l’agnello, ormai operante nella Corte celeste.
La visione giovannea si presenta come quella di un profeta veterotestamentario: egli infatti si serve largamente di immagini tipiche della profezia ebraica; e la sagacia dell’O. si manifesta qui nell’individuare i furta veterotestamentari, ma senza trascurare i riferimenti, spesso criptici, agli Evangeli.
Come osserva l’A., l’Apocalisse riprende un genere letterario tipico dell’ebraismo e presente pure nell’insegnamento di Gesù.

Dopo questa sintesi sapiente del pensiero giovanneo ha inizio la parte analitica, divisa in 26 paragrafi; come nelle opere precedenti, ogni paragrafo si compone di due parti: il testo giovanneo in una traduzione ineccepibile e il commento, che non è solo esegesi, in quanto si richiama costantemente agli antecedenti scritturistici e – ove il testo lo richiede – anche storici (in particolare quanto attiene alla storia di Roma e di Babilonia) e sono tenuti nel debito conto gli apporti di commentatori precedenti (Menocchio e Le Maistre in particolare), ma sempre con piena consapevolezza critica.
Nel primo paragrafo, «Il tempo è vicino» (pp. 9-12), è presentata la rivelazione sulle sorti dell’umanità: la storia non è che «una tragica maschera di violenze e menzogne» (p. 10): Giovanni esprime un profondo pessimismo nei riguardi del mondo tributario di Roma: come ben osserva l’O., questo atteggiamento verso la storia costituisce il carattere più intimo della fede cristiana e una prospettiva apocalittica era già nel discorso della montagna.
Nel secondo paragrafo, «Il Figlio dell’uomo» (pp. 13-18), l’Apocalisse si presenta come il Vangelo di Gesù Cristo, che appare pertanto in tutta la sua gloria. Essa costituisce un itinerario dalla creazione antica, soggetta alla colpa e alla morte, alla nuova creazione, esente da ogni colpa e da ogni sofferenza: Cristo, vinta la morte, «è entrato trionfalmente nella corte divina» (p. 17). L’A. ravvisa nella visione del Profeta di Patmos la presenza del libro di Daniele.
Nel terzo paragrafo, «Ciò che lo Spirito Santo dice alle Chiese» (pp. 19-28), Giovanni ci presenta il principe dei re con in mano sette stelle e intorno sette lampade d’oro. È rivolto alle sette Chiese l’ammonimento di ascoltare lo Spirito. In un mondo dominato dalla prepotenza del potere romano non era invero facile esprimere la propria libertà spirituale. Comunque meritavano i rimproveri del Profeta cinque delle sette Chiese per la loro tiepidezza; ma si tratta di un rimprovero da amico, perché tale si dimostra Cristo, il futuro giudice.
Nel quarto paragrafo, «Ecco un trono!» (pp. 29-32), v’è l’invito di Cristo al suo servo a salire, onde «contemplare il mondo dalla sua ultima prospettiva» (p. 30). E l’attenzione del Profeta è attirata dai 24 seggi su cui siedono altrettanti anziani, rappresentanti di una umanità ormai pervenuta alla sede del divino: si nota – come osserva l’O. – la presenza di immagini desunte dalla religione ebraica e da altre confessioni: esse hanno una loro funzione, in quanto consentono a chi vi rivolge lo sguardo di partecipare alla vita perfetta della Corte celeste.
Nel quinto paragrafo, «L’agnello sgozzato» (pp. 33-38), l’A. ci offre una seconda grandiosa scenografia: compare nell’aula del cielo un agnello colpito a morte, ma ritto: «la storia svela i suoi enigmi nella vicenda dell’innocente ucciso» (p. 35): era usuale nel rituale ebraico il sacrificio di animali in sostituzione dell’essere umano peccatore. E il Profeta addita, al di là delle sciagure che affliggono il mondo, una meta suggestiva: la comunione col divino.
Nel sesto paragrafo, «Il gran giorno dell’ira» (pp. 39-44), lo sguardo è rivolto alla terra e alle sciagure che l’opprimono. Come l’antica profezia, anche questa vede nell’infedeltà d’Israele e nel desiderio di dominio delle genti l’origine di tante sciagure, perché «il male e la morte non vengono dal creatore, ma dal desiderio delle creature di elevarsi al suo posto» (p. 41). L’agnello ha il compito di spezzare i sigilli, cioè di dimostrare la crudezza della storia, che si esprime soprattutto nella persecuzione degli innocenti uccisi per la loro fedeltà a un ideale di vita.
Nel settimo paragrafo, «Il sigillo del Dio vivente» (pp. 45-48), lo scenario cambia: il mondo non è soltanto luogo di morte, «ma anche attesa di vita» (p. 46). Si rinnova l’episodio glorioso dell’esodo ebraico: la storia compie, sotto l’occhio misericordioso di Dio, la seconda traversata del deserto.
Nell’ottavo paragrafo, «Un terzo» (pp. 49-52), v’è l’apertura del settimo sigillo, che dovrebbe concludere la vicenda umana, la quale trova il suo emblema negli eventi dell’antico Israele. Anche la filosofia antica aveva preconizzato una progressiva distruzione del cosmo, e l’O. richiama con sobri ma esaustivi accenni quanto stoicismo ed epicureismo avevano prospettato per bocca di Lucrezio, Plinio il Vecchio e Seneca.
Nel nono paragrafo, «Non fecero penitenza» (pp. 53-56), il Profeta si diffonde sugli errori degli uomini e sul «primato della giustizia divina» (p. 56): una sorte che solo un mutamento delle opere umane avrebbe potuto evitare.
Nel decimo paragrafo, «Devi di nuovo profetare» (pp. 57-60), la visione tragica della storia umana non esclude la salvezza per colui che saprà meritarla e ascolterà la voce divina che proclama la fine dei mali e l’instaurazione del regno di Dio.
Nel paragrafo undecimo, «Due testimoni» (pp. 61-64), dalla tragedia della città santa con la distruzione del Tempio il Profeta trae un messaggio spirituale, un invito a costruire un nuovo tempio universale, non più legato alle vicende di un solo popolo: e se il popolo di Roma si beava dei supplizi escogitati da Nerone per tanti spiriti eletti, questi sono «condotti in cielo tra la meraviglia dei loro persecutori» (p. 64).
Nel dodicesimo paragrafo, «Si aprì il tempio di Dio» (pp. 65-67), il suono della settima tromba annunzia la manifestazione del regno di Dio. L’armonia del cosmo era diventata teatro della prevaricazione, ma l’apparizione nel cielo del regno di Dio ha stabilito un rapporto di comunione fra il Creatore e le creature.
Nel tredicesimo paragrafo, «Una donna vestita di sole» (pp. 69-73), in una scenografia cosmica sono presentate le lotte fra i giusti e le forze diaboliche: vari personaggi si presentano in una suggestiva tipologia: v’è soprattutto il personaggio emblematico della donna incinta e v’è il solito serpente tentatore delle origini, ma la sua sconfitta è vicina e l’anticipa un canto simile ai salmi che si espande nel cielo.
Nel quattordicesimo paragrafo, «Una belva!» (pp. 75-79), l’opera nefasta del serpente si manifesta attraverso l’impero romano; e sotto questo profilo va ricondotta l’apparizione di una bestia feroce proveniente dal mare e di una seconda proveniente dalla terra; ciò che accadde a Gesù si ripete per i suoi seguaci: e qui si chiarisce cos’è la fede: è «la scelta di un universo libero dalle contraffazioni, dalle menzogne, dalla schiavitù» (p. 79).
Nel quindicesimo paragrafo, «L’evangelo eterno» (pp. 81-84), alla visione orrenda del potere diabolico si contrappone la contemplazione della vittoria dell’agnello: «tutto l’universo redento dal male proclama quale sia la verità da accogliere» (p. 83), e Gesù stesso, probabilmente, proclama la beatitudine apocalittica dei martiri.
Nel sedicesimo paragrafo, «La falce affilata» (p. 85-87), viene ribadita l’imminenza del giudizio; con metafore di ascendenza biblica il Profeta ci pone sotto gli occhi un mondo dominato dalla crudeltà e dal sopruso, mentre nel diciassettesimo, «Il canto di Mosè» (pp. 89-91), si ripetono i segni premonitori della fine, insieme con la promessa di un mondo liberato dall’influsso del male, con la consolante prospettiva della salvezza offerta a tutti.
Nel diciottesimo paragrafo, «Felice chi veglia» (pp. 93-96), si ripropongono, quale pena per i reprobi, le veterotestamentarie piaghe d’Egitto. Un violento terremoto poi scuoterà la terra e la città dominatrice del mondo sarà divisa in 3 tronconi, «ma gli esseri umani rimangono chiusi nella loro follia»(p. 96).
Nel diciannovesimo paragrafo, «Il giudizio della grande prostituta» (pp. 97-102), è ancora Roma che presenta il suo aspetto procace sotto l’immagine della grande prostituta con cui tutti i popoli hanno fornicato. A meglio evidenziare l’accostamento v’è il colore della bestia su cui siede la prostituta, simbolo della maestà dei suoi magistrati di cui era segno la porpora. Si tratta, come spiega l’Angelo, di una realtà provvisoria, destinata a sprofondare nell’abisso infernale. V’è un accenno a Nerone? La presentazione giovannea – sostiene l’O. – è ambigua e pertanto si presta a varie soluzioni. Una cosa è certa: questa donna è il prototipo dell’essere infernale che si contrappone alla creatura «che conduce a compimento la creazione primordiale nella sua armonia» (p. 102).
Nel ventesimo paragrafo, «È caduta Babilonia la grande!» (pp. 103-107), la fine di Babilonia è compianta da coloro che sul suo splendore avevano fondato la loro fortuna; al contrario, felici saranno le vittime di quel mondo corrotto.
Nel ventunesimo paragrafo, «Invitati alla cena dell’agnello» (pp. 109-112), un grande coro invita – una volta che è caduta la potenza di Roma – a partecipare alle nozze dell’agnello; e anche qui, nelle immagini di disperazione come in quelle di letizia, si risente la voce dei profeti biblici; e nel ventiduesimo, «Re dei re, signore dei signori» (pp. 113-115), lo sposo celeste assume le vesti di un cavaliere armato di tutto punto: è la fine del potere fondato sulla prepotenza.
Nel ventitreesimo paragrafo. «I libri aperti» (pp. 117-120), v’è lo scontro finale: sconfitto il potere mondano, rimane da eliminare il nemico primordiale: egli sarà vinto e rinchiuso nella regione sotterranea; si tratta però di una pena temporanea, dalla quale sarà liberato e riprenderà il suo potere; ma un fuoco celeste lo sconfiggerà e lo caccerà nel lago di fuoco dove già si trovano la bestia e il falso profeta.
Nel ventiquattresimo paragrafo, «La tenda di Dio» (pp. 121-124), eliminato il male, appare la nuova creazione: Dio si accamperà in una tenda con le sue creature; «allora si ristabilisce la comunione con l’origine primordiale della vita, spezzata ai primordi della storia e sempre di nuovo infranta» (p. 122).
Nel venticinquesimo paragrafo, «La nuova Gerusalemme» (pp. 125-129), Gerusalemme ora è una città, ora è paragonata a una sposa. Nel centro di essa sorgeva l’albero della vita, già «sottratto all’arroganza dei primi esseri umani» e che adesso «fornisce nutrimento e medicina spirituale a chiunque si avvicini ad esso» (p. 129).
Nel ventiseiesimo paragrafo, «La grazia del Signore Gesù con tutti» (pp. 131-134), per la terza volta si propone la presenza di una prova a cui tutti sono sottoposti in base alle loro opere.

Arricchiscono la già pregevole monografia otto «Appendici» (pp. 135-193), redatte tutte, tranne la sesta (che reca la firma di Daniela Vasta) da Arianna Rotondo. Si tratta di un corredo prezioso di notizie che interessano la trattazione specifica; in taluni casi («Il testo e le traduzioni», «Il linguaggio», «Uno schema letterario») si tratta di diligenti profili, tabulazioni, ermeneusi delle voci caratterizzanti, il tutto di indubbia utilità per quelli che dell’Apocalisse non vogliono essere semplici lettori: lo stesso tracciato, ma con l’aggiunta di qualche utile notazione critica, segnano le pregnanti pagine di «Appendice 4: Le interpretazioni»; la quinta reca la commossa biografia di Lanza del Vallo, il fondatore dell’«Arca», che nella sua vocazione alla pace universale trova nell’Apocalisse un supporto ideale: infatti anche per lui «la centralità del peccato diventa la categoria fondamentale per leggere profeticamente la storia e svelarne le logiche» (p. 163). Altro capitoletto interessante è quello dedicato alle arti figurative che privilegiarono l’agnello, il libro dei sette sigilli, l’alfa e l’omega, le sette corna e i sette occhi, il Cristo in gloria, il pantocratore, il Cristo giudice e la Gerusalemme celeste, temi tutti che hanno ispirato la fantasia degli artisti di ogni epoca, le cui opere sono descritte con dovizia di particolari, specie per quanto attiene al ciclo dell’Apocalisse nella Basilica superiore di Assisi; né sono trascurati i capolavori della miniatura o l’architettura che si ispira alla Gerusalemme celeste; e largo spazio è riservato alle 15 xilografie di Dürer, alla grandiosa visione apocalittica di Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto; infine uno sguardo all’Apocalisse contemporanea, in cui però i riferimenti al testo biblico sono puramente allusivi, ma l’insieme comunque risulta di estrema potenza, «forse perché quei mostri antichi sono simboli eterni, fuori dal tempo, della bestialità che sempre insidia l’animo umano e che può condurre ad avventate scelte suicide» (p. 187). L’«Appendice» dedicata alla musica è incentrata sulla fortuna del dies irae anche attraverso le sue rielaborazioni. Il testo, «generato dalla malvagità umana, però – è questo lo spirito dell’opera giovannea – si tramuta in dies gratiae a motivo della compassione divina verso la fragilità delle creature» (p. 190).
Anche nel cinema ha fatto breccia la visione apocalittica, per via di grandi maestri (come C.T. Dreyer e I. Bergman) e di più modesti operatori di films di fantascienza: di tutto questo c’informa l’«Appendice 8».

I metodi seguiti dall’O. e dalle sue collaboratrici sono sempre gli stessi, ma in quest’ultima fatica essi appaiono ulteriormente affinati, e non solo provvisti di una maggiore copia di informazioni.

           

 Francesco Corsaro